Aggressione ai medici a Napoli: parla un dottore del 118, “Un botto pazzesco, per colpa del lancio di un petardo da un orecchio non sento più”

(RASSEGNA STAMPA – Fonte: Il Mattino)

Fabio D. 41 anni, medico del 118 in servizio a Napoli la mattina di capodanno viene sfiorato da un grosso petardo esploso a meno di un metro. A proteggerlo solo la portiera dell’ambulanza. Il boato investe in pieno il suo orecchio destro e ora rischia di perdere l’udito.

Dottore, come va?
«Da un orecchio non ci sento più fino a 100 decibell, più del suono di una sirena (50 è il livello della voce)».

Cosa è accaduto?
«Ero a Barra. Avevo appena concluso l’intervento evitando il ricovero. Sono sceso in strada, stavamo riponendo le attrezzature. Un botto pazzesco».

Ha visto chi è stato?
«No, ho solo sentito quel botto incredibile e mi sono allontanato rapidamente con i colleghi del team».

Come ha trascorso questi giorni?
«Tra cuffie, prove mediche e controlli. La collega che mi ha visitato non si sbilancia e mi ha imposto 20 giorni di stop per evitare che il rumore della sirena procuri altri danni. Poi si vedrà».

Il danno potrebbe essere permanente?
«Mi hanno detto di non farmi illusioni».

Come sta vivendo questa situazione?
«Con la consapevolezza della banalità del male».

In che senso?
«Sono abituato a fronteggiare le tensione e ho vissuto situazioni molto critiche gestite comunicando. In questo caso non c’è stata alcuna possibilità di controllo. Può sembrare una bravata, invece è lo specchio di personalità psicopatologiche nel corpo sociale che fanno male in maniera goliardica».

Cosa l’ha confortata?
«La solidarietà della gente per strada espressa nell’immediato e in maniera sincera, la vicinanza dei colleghi e la sorpresa della visita del manager Ciro Verdoliva che ha voluto incontrarmi. È stato uno scambio informale ma molto umano».

Lei è un precario.
«Sì, ho contratti rinnovati di anno in anno. Sono stato escluso dalla graduatoria per la stabilizzazione, ma a mio avviso la Asl ha interpretato in maniera restrittiva la norma. Ho fatto ricorso, vedremo. Con Verdoliva abbiamo anche scherzato».

Le aggressioni al personale sanitario sono un male di Napoli?
«Amo questa città, dopo molti anni di lavoro all’estero negli Usa e in Russia, dove ho anche delle docenze: ho scelto di tornare perché credo nel riscatto della città. In fondo Napoli non è diversa da altre realtà sociali complesse».

Ha rammarichi sulla sua carriera?
«Lavoro nel 118 per scelta, perché mi piace. Certo un episodio del genere lascia un’amarezza particolare e un senso acuto di impotenza».

A cosa si riferisce quando parla di gestione della tensione?
«Ricordo almeno tre episodi».

Ce li racconti.
«Il primo un anno fa al san Giovanni Bosco dove fui inviato per una notte. Il prepotente di turno voleva scavalcare la fila. Gli dissi che io ero tenuto a svolgere il mio dovere e lui aveva dei diritti, ma che io dovevo prima finire di curare uno più grave. Si fermò e mi chiese scusa. Disse che lo avevo fatto riflettere con la storia dei diritti».

E gli altri?
«Ero al domicilio di una paziente a Scampia. Fui violentemente spinto contro il muro dal fratello della persona malata. Conclusi l’intervento anche se sarei voluto andare via. La mamma mi chiese scusa. Io in questi casi non scendo mai al livello di chi mi aggredisce. Poi andai a denunciare. Si trattava di una persona pregiudicata a cui fu revocata la misura domiciliare».

Non ha avuto paura?
«Gli incoscienti non hanno paura. Sono cosciente, ma parlo con la gente e spiego con fermezza modulando anche il registro lessicale mantenendo comunque la distanza. Questa gente non è abituata ad avere diritti, servizi pubblici e gratuiti e considera in maniera svalutata quello che è gratis. Io invece sono fiero di svolgere un servizio pubblico e ne chiedo il rispetto per esso e per me come professionista».

L’ultimo episodio?
«Il più grave e mai denunciato. Era il 2017 al Rione Berlingieri. Ero da poco alla Asl da Capri. Dal Chiatamone fui chiamato per un grave incidente: uno scontro frontale tra due scooter. Non c’erano forze dell’ordine, tre ragazzi erano gravi. Uno morì dopo due giorni. Mentre ne assistevo un altro fu trasportato all’ospedale. Aspettavo un altro mezzo e tra la folla si avvicinò uno puntando la pistola. Alzai lo sguardo. Mi chiesi cosa potessi fare. Gli dissi in napoletano che se mi avesse sparato non avrebbe risolto nulla. Arrivò uno più delinquente di lui e mi diede ragione. Poi salì a bordo con la pistola e pretese di andare al San Giovanni Bosco. Per nome gli chiesi di levare o’ fierr a miez, gli dissi che aveva rotto cu sta’ pistola. Dall’ospedale andai subito via sapendo che non potevo tirare troppo la corda. Ho superato tutto questo e ora un petardo mi ha atterrato».

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