La Procura impugna la sentenza e ricorre in Cassazione contro la condanna a soli 20 anni del killer di Mariarca

Non gelosia “cieca” e “ordinaria” ma “punitiva”, per vendetta: una diversa interpretazione che può sembrare una “sottigliezza”, ma che penalmente comporta una differenza enorme, dieci anni di carcere in più. E’ su queste, ragionevoli basi che il Pm della Procura di Venezia, dott. Raffaele Incardona, titolare del procedimento per il femminicidio di Maria Archetta Mennella, ha trovato il modo di impugnare la sentenza di primo grado con cui l’omicida, il pizzaiolo di Torre del Greco ed ex marito della vittima Antonio Ascione, è stato condannato dal Tribunale lagunare a (soli) vent’anni: non in Corte d’Appello, facoltà che gli è prelusa avendo scelto l’imputato il rito abbreviato, ma direttamente in Cassazione. La sentenza, pronunciata il 4 ottobre 2018, è stata accolta con amarezza e rabbia dai familiari di Mariarca, assistiti dall’avv. Alberto Berardi in collaborazione con Studio 3A-Valore S.p.A., società specializzata a livello nazionale nel risarcimento danni e nella tutela dei diritti dei cittadini. Vent’anni per un crimine così efferato sono parsi infatti del tutto inadeguati, non solo ai congiunti della vittima ma anche all’opinione pubblica, tanto più dopo il deposito delle motivazioni, che per contro suonano come una condanna all’ergastolo morale per l’assassino, definito subdolo, ignobile, violento, vile, riprovevole, anche verso i due figli minori resi orfani.

Il legale di parte civile, Prof. Berardi, infatti l’ha appellata, ma solo ai fini civili non essendogli dato di ricorrere in sede penale, dove invece – presso la Corte d’Appello di Venezia – ha potuto presentare ricorso il difensore di Ascione, Avv. Giorgio Pietramala, con ulteriore sdegno da parte della famiglia Mennella che teme altri sconti di pena. La difesa, tra le altre cose, pretenderebbe il riconoscimento delle attenuanti generiche e l’esclusione dell’aggravante, pienamente riconosciuta nel verdetto di primo grado, della “minorata difesa”, pur essendo stato acclarato che quel 23 luglio 2017, nella sua casa di Musile di Piave, nel Veneziano, dove si stava ricostruendo una vita dopo la separazione da quel marito violento e possessivo, la 38enne originaria di Torre del Greco è stata accoltellata all’alba mentre si trovava ancora a letto. Ma ora a queste due impugnazioni si aggiunge quella, ben più rilevante, del Pubblico Ministero, che potrebbe riaprire l’intero caso. Il dott. Incardona nel suo ricorso alla Suprema Corte, notificato alle parti il 9 aprile, punta su una delle due aggravanti, i futili motivi (l’altra è la premeditazione), che non sono state invece riconosciute dal giudice, Massimo Vicinanza, determinando così la riduzione di pena dall’ergastolo a trent’anni, divenuti poi venti con l’abbreviato: rito che peraltro oggi, con la nuova legge, intervenuta però troppo tardi, non si può più richiedere per l’omicidio aggravato.

La giurisprudenza della Cassazione prevede che, come rammenta il Pm, quando la condotta è originata da spirito punitivo verso la persona offesa, considerata come proprietà dell’agente e di cui va punita l’insubordinazione, ricorra il motivo futile idoneo a integrare la circostanza aggravante. Per il giudice, invece, Ascione avrebbe agito per ragioni sì di gelosia ma determinate dal fatto che la moglie aveva intrapreso una nuova relazione e, quindi, collegate solo a un desiderio (infranto) di vita comune, seppur abnorme. Ergo, gelosia priva di intenti punitivi ma per così dire “ordinaria”, una spinta dell’animo capace di indurre a compiere azioni illogiche per la quale non ricorrerebbero i presupposti per l’applicazione della aggravante dei futili motivi. Una “lettura” che invece il Sostituto Procuratore non condivide affatto, anche alla luce “dei plurimi momenti argomentativi della decisione (nelle motivazioni della sentenza, ndr) nei quali il giudice, ripercorrendo le modalità dell’aggressione e i comportamenti del reo precedenti e successivi all’omicidio, dà atto di modalità e circostanze dell’azione che possono riferirsi solo a un soggetto che si sia sentito padrone della vittima e la abbia reificata”. Una circostanza per tutte: la prima telefonata che l’assassino fa dopo aver accoltellato Mariarca è diretta al responsabile del punto vendita dove lavorava, all’outlet di Noventa di Piave, per comunicargli di aver ucciso l’ex moglie perché si frequentava con due giovani colleghi di lavoro. “Tale evidenza processuale – sostiene il dott. Incardona – è coerente con un concetto di gelosia espressione di dominio da parte dell’agente che, se violato, merita la punizione del trasgressore. L’imputato, una volta realizzato che la moglie gli era sfuggita di mano, ha deciso di punirla spingendosi fino a comunicare a terzi le ragioni del suo gesto”.

Non solo. Il Pm ricorda anche che il killer ha agito dopo aver scoperto i messaggi sullo smartphone che la moglie si era scambiata con il nuovo partner e dopo aver preso atto che quel legame che voleva ripristinare si era ormai definitivamente sciolto, anche questo chiaro indizio di “gelosia punitiva”; ancora, Raffaele Incardona sottolinea come nelle motivazioni si dia atto che “l’imputato ha agito in modo subdolo, in quanto, abusando dell’ospitalità concessagli dall’ex moglie, da un lato ha mostrato di accettare la sua scelta di porre fine alla relazione coniugale, dall’altro non ha fatto altro che controllarne la vita, spiandone anche il telefono, l’ha insultata, l’ha minacciata pochi giorni prima dell’omicidio, l’ha ricattata anche utilizzando i figli minori, arrivando addirittura a perorare il suo licenziamento”: più “padrone” di così.

“E’ fuori di dubbio che queste condotte – conclude il Sostituto Procuratore – appartengano ad un soggetto che ha considerato la vittima un oggetto di sua proprietà e che si è perciò sentito in diritto di controllarne ossessivamente la vita e di punirla, uccidendola, per la sua insubordinazione”: un’autentica vendetta. Di qui la richiesta alla Cassazione di annullare la sentenza impugnata nella parte in cui non riconosce la sussistenza della circostanza aggravante dei futili motivi, con ogni conseguenza di legge.

“Un’iniziativa che auspicavamo e che conferma l’impegno della Procura di Venezia per rendere giustizia ai familiari della vittima” commentano l’avv. Berardi e Riccardo Vizzi, consulente personale di Studio 3A che ha seguito fin dal primo momento i Mennella. Una soddisfazione mista a speranza a cui si unisce quella dei familiari di Maria Archetta: “Voglio pensare positivo, anche se purtroppo vediamo troppo spesso come dopo gli appelli (allusione a quello delle difesa, ovviamente, ndr), la pena per tanti omicidi sia scesa ulteriormente – commenta Assunta, la sorella e tutrice dei due figli di Mariarca – Io mi auguro che i giudici della Cassazione valutino bene tutte queste circostanze: l’assassino di mia sorella ha già beneficiato di tanti, troppi privilegi, il rito abbreviato, l’inspiegabile, mancato riconoscimento della premeditazione, che per noi era lampante. Io e la mia famiglia siamo arrabbiati e chiediamo solo un po’ di giustizia, perché chi commette questi delitti dovrebbe marcire in galera: speriamo che Ascione venga condannato quanto meno a trent’anni”. Una prospettiva che tornerebbe appunto “in gioco” in caso di accoglimento del ricorso da parte degli Ermellini.

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